Sembra impossibile che nel 2022 sopravvivano ancora convinzioni del genere, perché vorrebbe dire che migliaia di aziende che hanno investito miliardi di euro nel fotovoltaico non ci hanno capito niente e che masochisticamente abbiano piacere a installare una tecnologia la cui produzione energetica non li ripaga delle spese sostenute e le cui emissioni non permettono loro di rispettare i propri impegni di decarbonizzazione.
Ma forniamo qualche dato di fatto, utile per chi vorrà basarsi sulle evidenze e non sulle superstizioni.
Prendiamo le mosse da una delle ultime analisi in materia, pubblicata l’anno scorso da una fonte qualificata come il National Renewable Energy Laboratory (NREL), cioè uno dei laboratori nazionali del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti.
In questo studio, il NREL ha armonizzato le tante valutazioni del ciclo di vita (LCA) sulle tecnologie di generazione dell’energia elettrica. Scopo dell’analisi è stato quello di ridurre la variabilità e chiarire le tendenze sulle stime dei loro impatti ambientali. “Le emissioni di gas serra nel ciclo di vita delle tecnologie di generazione rinnovabili sono generalmente inferiori a quelle delle tecnologie basate sui combustibili fossili”, ha concluso il NREL.
Il fotovoltaico ha un impatto circa 23 volte inferiore al carbone, 19 volte minore del petrolio e 11 volte più basso del gas naturale, in base ai livelli mediani di grammi di CO2 equivalente emessi per kWh prodotto, come si può vedere nel grafico e nella tabella.
Il NREL sottolinea che per le fonti fossili è la combustione durante il funzionamento dell’impianto a emettere la maggior parte dei gas serra, mentre per le tecnologie nucleari e rinnovabili, la maggior parte delle emissioni di gas serra avviene a monte, nella fase di estrazione e produzione dell’asset generativo.
EROI, l’energy return on investment
Vediamo invece un recente studio, pubblicato un paio di settimane fa sulla rivista scientifica “Sustainability” e intitolato “Energy Return on Investment of Major Energy Carriers: Review and Harmonization”.
Lo studio si focalizza sull’energia netta, cioè l’energia che rimane dopo aver contabilizzato il “costo” energetico dell’estrazione e della lavorazione – l’energia “utile” che ci rimane per sostenere la società moderna.
La metrica usata è il rendimento energetico dell’investimento o “energy return on investment” (EROI), ovvero energia ricavata su energia consumata, è un coefficiente che riferito a una data fonte di energia ne indica la sua convenienza in termini di resa energetica.
Un EROI maggiore di 1 indica che una fonte fornisce alla società più energia di quella utilizzata nel processo di estrazione. Dallo studio risulta che tutte le fonti hanno un EROI maggiore di 1. Un EROI, per esempio, di 1,1 è però ancora troppo basso ed è necessario spingersi ben oltre. Senza addentrarci in complicate spiegazioni metodologiche, basti sapere che un EROI di 1 fornisce lo 0% di energia netta, mentre un EROI di 2 fornisce già il 50% di energia netta, e così via, in maniera non lineare.
Una tecnologia che invece estrae energia con un EROI di 10 fornirà il 90% della sua energia come energia netta alla società. Lo studio ha quindi preso un valore 10 come soglia di riferimento, indicando che ogni ulteriore aumento dell’EROI produrrà solo miglioramenti relativamente marginali nella quantità di energia netta.
La cosa che risalta è che la maggior parte dei combustibili termici, compresi i biocarburanti, il petrolio e il gas naturale, hanno EROI ben inferiori a 10 dopo aver considerato l’intera catena di produzione fino al punto di utilizzo, come mostra l’illustrazione.
Per contro, gli EROI della produzione di energia elettrica da fonte idroelettrica, eolica e fotovoltaica sono tutti pari o superiori a 10, espressi in termini di “energia primaria equivalente”, come si può vedere nell’illustrazione, dove “BEECS” sta per bioenergie con cattura e stoccaggio della CO2.